L’immunoterapia è un tipo di trattamento che mira a rafforzare il sistema immunitario nella lotta contro il cancro.
La terapia si è dimostrata molto efficace contro vari tipi di tumori aggressivi, come il cancro al seno triplo-negativo. Il discorso cambia quando si parla di glioblastoma, ovvero una forma di cancro al cervello con una prospettiva mediana di soli 15-18 mesi. In questo caso, l’efficacia del trattamento riguarda solo 1 paziente su 10.
Allora, come mai l’immunoterapia non funziona così efficacemente in questi casi? Un team di scienziati guidato dal dottor Raul Rabadan – professore di biologia e biomedica presso il Columbia University Vagelos College of Physicians and Surgeons di New York – ha deciso di indagare.
Come spiegano gli scienziati, il cancro a volte blocca l’attività del sistema immunitario influenzando una proteina chiamata PD-1. Questa proteina è presente sulle cellule immunitarie chiamate cellule T e aiuta a garantire che il sistema immunitario non esageri la sua risposta quando reagisce alle minacce. Quando il PD-1 si lega a un’altra proteina chiamata PD-L1, impedisce alle cellule T di attaccare altre cellule – comprese le cellule tumorali.
Così, alcuni farmaci immunoterapici funzionano bloccando il PD-1, che allenta la sua azione frenante sul sistema immunitario e permette alle cellule T di sciogliersi e uccidere le cellule tumorali.
Gli inibitori del PD-1 si sono dimostrati efficaci nel trattamento della maggior parte dei tipi di cancro, così il Prof. Rabadan e il suo team si sono chiesti che effetto avrebbero avuto questi farmaci sul glioblastoma. Per questo motivo, hanno studiato il microambiente tumorale – cioè le cellule che supportano la crescita del tumore – in 66 persone con glioblastoma, prima e dopo il trattamento con gli inibitori del PD-1 nivolumab o pembrolizumab.
Dei 66 casi di glioblastoma, 17 hanno risposto all’immunoterapia per un periodo di almeno 6 mesi.
Le analisi genomiche e trascrittomiche dei ricercatori hanno dimostrato che il resto di questi tumori aveva un numero significativamente maggiore di mutazioni in un gene chiamato PTEN, che normalmente codifica un enzima che agisce come soppressore tumorale. Inoltre, il Prof. Rabadan e i suoi colleghi hanno scoperto che a un numero maggiore di mutazioni PTEN corrisponde un aumento di macrofagi.
Si tratta di cellule immunitarie che normalmente “mangiano” batteri, virus e altri microrganismi. I macrofagi eliminano anche le cellule morte e i rifiuti cellulari, oltre a stimolare l’attività di altre cellule immunitarie.
Nel glioblastoma, i macrofagi hanno innescato un processo di crescita, alimentando la diffusione delle cellule tumorali. Inoltre, l’analisi ha rivelato che le cellule tumorali nel glioblastoma erano molto ravvicinate, il che potrebbe ostacolare la penetrazione delle cellule immunitarie, in modo da distruggere il tumore.
D’altra parte, i tumori che hanno risposto al trattamento hanno avuto più alterazioni genetiche nella via di segnalazione MAPK, che è fondamentale per regolare la funzione cellulare. Queste mutazioni si sono verificate prima che i pazienti fossero trattati con inibitori del PD-1, quindi il test per le mutazioni può offrire un metodo affidabile per prevedere quali pazienti potrebbero rispondere positivamente all’immunoterapia. Gli autori dello studio suggeriscono anche che i tumori glioblastoma che hanno mutazioni MAPK possono rispondere meglio a un trattamento combinato di inibitori PD-1 e farmaci mirati MAPK.
Tuttavia, un approccio terapeutico di questo tipo necessita di ulteriori test.
Il Prof. Rabadan afferma: “Siamo ancora agli inizi della comprensione dell’immunoterapia oncologica, in particolare nel glioblastoma. Ma il nostro studio dimostra che possiamo prevedere quali pazienti con glioblastoma potrebbero beneficiare di questa terapia. Abbiamo anche identificato nuove modalità che potrebbero migliorare l’immunoterapia per tutti i pazienti con glioblastoma“.