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Con l’esplodere della pandemia da Sars-Cov2 e gli innumerevoli casi della malattia da esso scatenata, la covid-19 (acronimo di COronaVIrus Disease 19) conosciuta anche come malattia respiratoria acuta da coronavirus, sentiamo ogni giorno parlare di sintomi più o meno gravi, come anche di persone asintomatiche o risultate negative al virus.
Ma come mai vi sono sintomatologie così diverse? Come mai alcuni si ammalano facilmente o addirittura più volte di Covid-19 mentre altri risultano positivi asintomatici, oppure non si ammalano per nulla nonostante siano stati a stretto contatto con un paziente di covid?
Queste domande se le sono poste anche i ricercatori e si è deciso, quindi, di esaminare il DNA delle persone resistenti al virus, come per esempio chi ha vissuto insieme a un positivo senza per questo ammalarsi, e confrontarlo con quello dei soggetti positivi al virus e dei pazienti che hanno sviluppato invece reazioni immunitarie.
I risultati della ricerca sui diversi DNA hanno mostrato che il 10% dei pazienti di Covid-19 possiede un difetto genetico nella produzione degli interferoni, i pazienti con forme molto gravi di Covid-19 ha infatti risposte immunitarie anomale, ossia producono degli autoanticorpi che neutralizzano l’effetto antivirale degli interferoni di tipo I.
Il 3,5% dei pazienti presenta addirittura mutazioni specifiche che impediscono la produzione di interferoni di tipo I o la risposta cellulare a tali molecole.
La carenza di interferoni di tipo 1 nei pazienti con una forma grave di Covid-19, è fra le 10 scoperte scientifiche più rilevanti del 2020, una scoperta internazionale che coinvolge anche i ricercatori dell’Università degli Studi di Brescia e della ASST Spedali Civili.
La scoperta di queste differenze e anomalie evidenzia pertanto che producendo meno interferone risulta più probabile ammalarsi di Covid-19, anche in forme gravi, dimostrando che la carenza delle proteine dette interferoni (IFN) di tipo 1 è comune nei pazienti di coronavirus che contraggono una forma grave della malattia.
Inoltre, i coronavirus come il SARS-Cov-2 avrebbero sviluppato meccanismi in grado di sopprimere la produzione endogena di interferone, aiutando il virus a eludere la barriera naturale costituita dal sistema immunitario.
L’interferone consiste in una proteina naturale secreta dal sistema immunitario che serve a orchestrare le risposte antivirali del nostro organismo. Tali proteine si chiamano così perché, appunto, interferiscono con i virus e impediscono loro di moltiplicarsi.
Gli interferoni ricoprono infatti la funzione di riconoscimento di germi, batteri, virus e cellule tumorali presenti nel nostro corpo: in sostanza, riconoscono una minaccia per l’organismo per poi segnalarla al sistema immunitario stesso, attivando le cellule natural killer (che hanno lo specifico compito di neutralizzare le minacce immunitarie).
Una carenza nella produzione di interferone del gruppo beta sembrerebbe essere correlata a una maggiore suscettibilità di sviluppare gravi patologie polmonari in caso di infezioni virali.
L’ipotesi formulata dallo studio, dunque, mostrerebbe che le persone più resistenti al virus siano in grado di produrre interferone in maggiori quantità, proteggendosi dal Covid o dalle sue conseguenze più gravi.
La somministrazione di interferone esogeno (da fonti esterne), prima o durante l’infezione virale, potrebbe allora risultare utile per prevenire o ridurre notevolmente la replicazione virale, riducendo di conseguenza la gravità dell’infezione e accelerandone il recupero.
Dai futuri sviluppi di questa ricerca, che deve ancora confermare o smentire tale ipotesi, si potrebbero sviluppare farmaci monoclonali o antivirali in grado di contrastare il coronavirus in maniera efficace.