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La mano robotica che è stata collegata al moncone di una paziente svedese è la prima del suo genere ad essere perfettamente sensibile al tatto e in grado di compiere movimenti complessi.
Finalmente la tecnologia biomedica può essere integrata permanentemente al corpo umano, e usata nella vita reale.
L’intervento ha avuto un che di pionieristico: è la prima volta che una mano robotica può essere utilizzata anche fuori dal laboratorio, al 100% delle sue potenzialità.
Gli operatori hanno installato la protesi per via transradiale, cioè passando attraverso il radio e l’ulna, le due ossa che vanno dal polso al gomito.
L’installazione avviene inserendo delle parti in titanio nel tessuto osseo, e agganciando ad esse 16 elettrodi. Gli elettrodi sono in contatto coi nervi e i muscoli del moncone, e funzionano quindi come una specie di ponte tra questi e la mano artificiale.
Quando la paziente vuole muovere la mano, il suo cervello invia un segnale al braccio. Il segnale corre lungo tutto il moncone e arriva agli elettrodi, che lo trasferiscono immediatamente alla mano robotica.
Lo stesso succede in senso contrario: quando la mano artificiale riceve delle sensazioni dall’esterno (il tatto), manda un impulso che, attraverso gli elettrodi, risale il braccio e arriva al cervello. Insomma, è il percorso compiuto normalmente dai messaggi che il nostro sistema nervoso scambia con l’esterno; solo, con l’aiuto di una piccola cucitura dove c’è un’interruzione.
In tutto ciò, la mano robotica continua a funzionare autonomamente, una volta che la paziente si è abituata a manovrarla.
E può perciò accompagnare la sua nuova proprietaria nelle faccende di ogni giorno.
La mano robotica è un orgoglio anche italiano, perché è stata progettata nella Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. L’intervento chirurgico per installarla è stato poi eseguito in Svezia, presso l’ospedale della Sahlgrenska University da Max Ortiz Catalan di Integrum, un’azienda specializzata in osteointegrazione.
Anche le protesi tradizionali usano gli elettrodi per trasmettere gli impulsi nervosi, ma finora la trasmissione era meno efficiente.
Venivano trasmessi meno impulsi, il che per il paziente significa avere una minor sensibilità e un minor controllo della protesi. Nel caso di mani robotiche meno sofisticate, il paziente riesce solo ad aprire e chiudere la mano. Il progetto italiano e svedese prevedeva invece l’inserimento di elettrodi in tutti i muscoli del moncone: un’operazione certamente più difficile, ma che permette di non perdere alcun impulso venga trasmesso. Per compensare il fatto che gli elettrodi installati sono numerosi, la paziente è stata sottoposta a un intervento di osteointegrazione.
L’idea è venuta dal successo di un altro esperimento, per il quale si doveva installare una protesi robotica sul braccio di un paziente cui mancava la parte dal gomito in giù. In questo caso l’operazione era più semplice, perché gli elettrodi venivano impiantati su un osso solo (l’omero, che collega l’articolazione del gomito a quella della spalla). Il passaggio al caso di una paziente amputata sotto il gomito, che dunque deve essere trattata tenendo conto di due ossa (radio e ulna), è stato la sfida.
Una sfida benaccetta, considerato che nell’avambraccio ci sono anche più muscoli su cui garantire un buon controllo motorio.
Tra l’altro è sorprendente la qualità delle sensazioni che la mano artificiale svedese riesce a trasmettere mimando il tatto naturale. Normalmente chi usa una protesi deve aiutarsi con la vista quando compie dei movimenti, perché l’arto robotico non è abbastanza sensibile. Ad esempio, la persona non capisce quanto pesa un oggetto, quanto è grande, se è caldo o freddo, che superficie ha.
La nuova mano, invece, ha un ottimo feedback sensoriale, e compensa questi problemi. Il segnale che questi elettrodi inviano direttamente ai muscoli del moncone, infatti, è molto simile a quello un tempo inviato dalla mano reale.
La paziente sta seguendo ora un programma di riabilitazione per sfruttare al meglio le potenzialità della nuova mano. Il programma prevede il rafforzamento dei muscoli dell’avambraccio (la mano robotica è più pesante di una mano in carne ed ossa) e l’educazione all’uso ottimale del robot (la donna si sta allenando a controllare i movimenti simulandoli con un software di realtà virtuale).
Il tutto richiederà qualche settimana di esercizio, il tempo che la paziente si appropri della mano anche dal punto di vista motorio. Altri due pazienti hanno prenotato una visita per ricevere lo stesso impianto nei prossimi mesi. Naturalmente, in Italia e in Svezia.