Le mascherine biotech così comode e alla moda, sono realmente sicure come vogliono far credere i produttori? Una recente inchiesta ha dimostrato che il loro filtro sia in realtà al di sotto della norma.
Le mascherine biotech hanno letteralmente spopolato nell’ultimo periodo, a partire dalle celebrità e gli sportivi che non perdono un’occasione per mostrarle indossate sul proprio viso. Eppure, recenti ricerche hanno dimostrato che esse non fanno parte delle mascherine che dovremmo considerare a norma. Perché?
Le U-mask, ovvero le prime mascherine biotech prodotte, dovrebbero garantire una protezione di circa 200 ore, con al loro interno uno speciale principio attivo utile nella distruzione dei batteri.
Il loro costo è piuttosto alto, si tratta di 32€, proprio perché dovrebbero assicurare una difesa quasi totale dal Coronavirus. Eppure, pare che queste mascherine “tecnologiche” non proteggano più di altre mascherine. E pare dunque che non siano sicure quanto quelle che ormai consideriamo le migliori, ovvero le mascherine Fpp3.
La procedura con cui le mascherine biotech sono state validate è stata del tutto autonoma: le U-mask sono state dichiarate a norma dalla stessa azienda che le produce.
Questo metodo è previsto dalla legge, ma non mancano i casi in cui si vada incontro ad errori: infatti pare che questi dispositivi di protezione siano dotati di un filtraggio inferiore al 95% previsto.
In sostanza, le analisi sui materiali delle U-mask sono state svolte da laboratori accreditati. Le certificazioni mostrate dichiarano che il tessuto antibatterico di queste mascherine sia efficace e paragonabile alle Fpp3. Tuttavia, queste ultime, per ottenere la certificazione, devono superare ben altri test, non soltanto basati sul tessuto, com’è avvenuto per le mascherine biotech.
Dunque, finché le U-mask non otterranno la certificazione obbligatoria che ne palesa i requisiti di respirabilità, efficienza di filtrazione, pulizia e biocompatibilità, non potranno essere paragonate alle Fpp3.