Un nuovo studio clinico ha dimostrato come, in presenza del morbo di Parkinson, si registrino livelli serici di PK2 molto più alti del normale: questa agisce come un nuovo biomarcatore precoce della malattia e fornisce la base da cui partire per studiare dei farmaci adatti.
È stato effettuato un nuovo studio clinico sul morbo di Parkinson che ha coinvolto la Clinica neurologica dell’Università di Roma Tor Vergata e il Dipartimento di fisiologia e farmacologia della Sapienza Università di Roma.
I risultati sono molto importanti e contribuiscono alla lotta contro il morbo di Parkinson. Lo studio ha infatti dimostrato che vi è un aumento della chemochina Prochineticina 2 (PK2) nel siero di malati di Parkinson, suggerendone un potenziale ruolo protettivo.
Lo studio ha analizzato il sangue di 31 pazienti affetti dal morbo di Parkinson e per la prima volta è stato dimostrato che i livelli serici di PK2 risultano significativamente aumentati rispetto a soggetti sani di controllo.
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La PK2 è contenuta nel sistema nervoso centrale ed è coinvolta in diverse funzioni sia fisiologiche che patologiche tra cui la neuro-infiammazione.
Già in precedenza si era registrato come la PK2 si attiva precocemente nella degenerazione nigrostriatale associata alla malattia di Parkinson, avendo così un ruolo protettivo della zona danneggiata.
Lo studio ha scoperto anche che vi è una correlazione tra l’aumento di PK2 nel siero e i due marcatori di neurodegenerazione nel fluido cerebrospinale (CSF o liquor) degli stessi pazienti, ovvero la proteina beta amiloide1-42 e il lattato.
Inoltre l’aumento dei livelli di PK2, del lattato e della beta amiloide 1-42 sono indice di stress ossidativo e danno mitocondriale, tipici delle malattie come il Parkinson e Alzheimer.
La PK2, quindi, potrebbe assumere il ruolo di biomarcatore precoce della patologia, e rappresentare così la base da cui partire per lo studio e la creazione di terapie farmacologiche con cui trattare il Parkinson.