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Dall’Università di Udine arriva un grido di protesta, forse per il momento un po’ isolato, sulla necessità di introdurre un esame di empatia nella facoltà di medicina.
E’ Fabio Sambataro, professore di Psichiatria dell’università, a farsi promotore di questa importante riflessione, che si spera avrà un seguito. Secondo il docente, nelle università italiane, per quanto esistano esami su esami per la corretta conoscenza teorica della psicologia del paziente, a livello pratico manca una prova per verificare il grado di empatia degli studenti e migliorarlo.
Ieri a Milano, è stato presentato uno studio sperimentale a favore della tesi sulla necessità di un esame di empatia in tutte le facoltà di medicina.
Questo progetto, portato avanti dalla Fondazione Giancarlo Quarta Onlus insieme all’ateneo udinese, ha dimostrato a gli effetti positivi prodotti dal cervello del paziente davanti alle parole e i gesti chiari del medico curante.
Partendo da un’analisi storica possiamo dire che a partire dagli anni ’50 la medicina ha riscontrato un’evoluzione tecnica, volta a disumanizzare il rapporto medico-paziente e portando necessariamente ad un distacco critico e oggettivo.
Si è sempre pensato che questo allontanamento fosse favorevole nell’ambito prettamente scientifico e medico per una diagnosi ottimale, e che quindi fosse più importante capire cosa avesse il paziente e non tanto cosa sentisse. Gli effetti di questa disumanizzazione della medicina si sentono ancora oggi e non sempre gli stessi hanno portato a riscontri positivi.
Come spesso accade, gli Stati Uniti già da tempo hanno portato avanti vari esperimenti, test, e studi sperimentali di 15 anni fa da dei chirurghi ortopedici sulla questione.
I risultati sono stati sconcertanti: la capacità di una comunicazione chiara dei medici nei confronti dei propri pazienti è risultata bassissima (solo il 21%), sempre poi se un tentativo di spiegazione sia avvenuta.
Per questo, già da anni, le università americane hanno inserito delle prove pratiche per migliorare le communication skills dei propri dottorandi. Questi esami sono volti a testare la comunicazione camice bianco-paziente tramite una specie di messa in scena teatrale.
Ma le novità non sono finite qui: non basta una sola prova pratica, ma abbiamo un esame di empatia periodico per mantenere nel tempo questa capacità.
Sempre lo stesso gruppo di chirurghi ortopedici americani si è rivolo ad un istituto di training per avverare la loro ipotesi sull’empatia. I risultati si sono visti già dopo 18 settimane: grazie alle prove pratiche sul miglioramento della comunicazione paziente-medico, il grado di empatia dei futuri dottori è migliorato moltissimo.
Un altro esperimento, in questo caso tecnologico, è stato portato avanti più recentemente: testare le capacità empatiche delle persone tramite un videogame. Il protagonista di questo esperimento era un alieno che doveva quantificare e decodificare le emozioni da lui provate. Dalla sua attività celebrale si è visto che la pratica delle zone del cervello per l’empatia mostravano un cambiamento nella loro attivazione dopo un training giornaliero col videogame.
In Italia il discorso intorno all’esame di empatia è recentissimo, e tutte le iniziative istituzionali che hanno già preso posto in America qui ancora mancano.
La risposta a tutte queste considerazioni risulta perciò chiara: strumenti possibili per migliorare ci sono e sono stati già testati, così come i modelli da seguire. Al momento quello che manca nelle università italiane è solamente l’applicazione sul campo di corsi pratici e dei rispettivi esami pratici propedeutici.