(Adnkronos) – Il problema dell'obesità è e volte più frequente nei pazienti psichiatrici rispetto alla popolazione generale. Non a causa delle terapie, pregiudizio tuttora presente, ma perché la maggior parte dei disturbi mentali si manifesta con alterazioni neurovegetative che riguardano l'appetito, nel senso della riduzione, ma anche dell'aumento. A puntare i riflettori su questo circolo vizioso sono gli esperti della Società italiana di psichiatria (Sip), in occasione della Giornata mondiale dell'obesità, che si celebra domani. Oltre la metà dei casi psichiatrici "sono preceduti da manifestazioni subcliniche quali un uso del cibo come 'automedicazione' per affrontare il disagio psichico, che finisce con l'aumentarlo, suscitando sentimenti di colpa intensi, porta di accesso per la depressione. Il meccanismo di mantenimento di tale comportamento prevede, come nelle dipendenze da sostanze, che il cibo possa esercitare un effetto di attivazione sui circuiti della ricompensa", spiegano gli psichiatri. "Il legame tra obesità e disturbi psichiatrici è un tema di crescente rilevanza scientifica – afferma Liliana Dell'Osso, presidente Sip – Tale associazione viene spesso attribuita alla terapia psicofarmacologica, ancora oggetto di pregiudizi che dovrebbero essere definitivamente accantonati. Se infatti alcuni psicofarmaci possono favorire l'aumento di appetito, le moderne terapie psicofarmacologiche mirano a limitare questo effetto, che viene ulteriormente contenuto da alimentazione e stile di vita corretti", precisa la specialista. "E' da sottolineare invece – continua la presidente Sip – come molti disturbi mentali si associno ad alterazioni dell'appetito, nel senso della riduzione, ma anche dell'aumento", talora precedute da manifestazioni subcliniche precoci come comportamenti di 'emotional eating', ovvero modalità di uso del cibo come mezzo per affrontare emozioni negative. Ma anche le emozioni positive, come gioia o eccitazione, possono essere implicate nel meccanismo. "La prevalenza (dati Usa) si attesta intorno al 38% degli adulti, con il 49% che vi ricorre settimanalmente", evidenzia Dell'Osso. "I cibi più spesso implicati – descrive – sono quelli ad alto contenuto energetico, poveri di nutrienti e gustosi, che forniscono maggiore gratificazione. Il meccanismo di mantenimento di tale comportamento di 'automedicazione' prevede infatti che, come nelle dipendenze da sostanze, il cibo possa esercitare un effetto di attivazione sui circuiti della ricompensa, in tal modo alleviando l'umore negativo. Si tratta di una modalità maladattativa messa in atto di fronte a forti stimoli emotivi, allo scopo di minimizzare, regolare e prevenire il disagio emotivo, mentre finisce con l'aumentarlo, suscitando sentimenti di colpa intensi. Si può riscontrare in presenza di diversi tipi di disturbi psichiatrici, quali disturbi d'ansia, dell'umore, nonché di disturbi alimentari veri e propri, dei quali può essere un precursore". —[email protected] (Web Info)